UN MONDO GLACIALE IN ERUZIONE

Marina Giannobi fotografa stati d’animo. Ma non li sottrae ai volti e agli atteggiamenti delle persone, non li cerca nei ritratti e nelle espressioni della gente. Ruba umori, fremiti, pulsioni, gioie e dolori al paesaggio, cattura quelle emozioni che possono essere intraviste, per un attimo almeno, in certi angoli delle città, in qualche luogo, in determinati incroci. Per dare ai suoi scatti un grande carattere e una buona dose di segreti, non usa viraggi o dominanti di colore, non s’affida alle magie del computer: piuttosto, aspetta che l’atmosfera s’ingravidi di sensazioni, attende che nell’aria si senta aleggiare la giusta energia e poi scatta, giocando esclusivamente sui tempi di posa e sull’apertura del diaframma. Chissà come, chissà perché – in realtà il come e il perché sarebbero ovviamente spiegabili, ma l’impalpabilità delle immagini finisce per proiettarle in un limbo a metà tra verità e pura immaginazione, come accade per certi film onirici e visionari – al riparo, all’interno della macchina fotografica, rimane imprigionato proprio ciò che di solito nella rappresentazione di panorami, orizzonti e spaccati metropolitani sfugge immancabilmente agli occhi meccanici ed elettronici: il senso del luogo, il motivo per cui quel posto preciso sembra avere su chi lo frequenta influenze benigne o maligne, pare godere d’una sorta di benedizione o maledizione. L’artista non punta l’obiettivo sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme o sulla Grotta dei Buddha birmani a Pindaya, non immortala l’Ayers Rock degli aborigeni o i ghat che a Pushkar calano verso il lago putrido e consacrato – anzi, il suo interesse si concentra spesso sull’hi-tech più freddo e apparentemente inespressivo, su quell’architettura futuribile in cristallo-cemento standardizzata e priva di sacralità, sullo stile e le linee generaliste dei luoghi di svago e di ritrovo – eppure riesce sempre a cogliere quell’aura magica che illumina e caratterizza i posti, quella potenza magnetica che spinge le persone a radunarsi proprio lì. È come se la fotocamera della Giannobi potesse contare su una specie di visione ai raggi infrarossi; le lenti guardano dove guardano anche quelle di tutte le altre macchine fotografiche ma, sulla pellicola impressionata, nel microchip della scheda, alla fine rimane qualcosa che gli altri strumenti non hanno visto: il calore emanato dal luogo, il suo senso profondo del mondo che pulsa, richiama, attira, invita.

Per la Giannobi Il colore del calore del mondo non è forzatamente giallo o rosso. Può anche apparire blu, viola, rosso, lilla, può anche avere le tonalità argentee del metallo o il bagliore bianco accecante della luce diretta. È come se il paesaggio e la metropoli si svelassero al di là del manto che il sole, la pioggia o lo smog vestono loro addosso. A seconda della dominante – che, è bene ripeterlo, non è mai frutto di una lavorazione forzata ma è sempre naturale – quel calore catturato dalla fotografa può poi diventare energia positiva o negativa, inebriante o disfasica, fulminante o rilassante, può raccontare della storia segreta della città e di quell’incrocio. Poiché all’autrice interessa, appunto, questo spaccato sconosciuto e forse inconscio del luogo e della vita pubblica, nel mirino de suoi scatti non ci mai i panorami da cartolina, gli edifici da manuale, gli scorci da rivista di viaggio: la macchina punta sempre, piuttosto, su uno di quei locali e ritrovi che, senza avere alcun fascino evidente, senza essere simboli e icone del posto, si ritrovano però ad avere ruolo da protagonisti nel comportamento di chi abita nei paraggi, hanno il potere di calamitare, attirando o respingendo, chi gravita in zona. Un bar, una discoteca, uno slargo, perfino una panchina o un lembo di parco metropolitano s’illuminano, e si perdoni il ricorso alla lirica ungarettiana, d’immenso: non sono niente, potrebbero sparire senza lasciare traccia dalla faccia della Terra ed essere presto dimenticati – a differenza dei Buddha afgani, delle Twin Towers americane, dell’iraniana Arg-e-Bam – eppure, nel momento in cui la Giannobi scatta, nell’istante in cui parte l’azione dell’otturatore, sono effettivamente il centro energetico del pianeta, un’apparizione sensazionale, un vulcano in piena attività. Non un vulcano di fuoco e di fiamme, come sopra già precisato, ma capace di eruttare ghiaccio, aria lilla, emozioni sorprendenti e immobilizzanti; un vulcano in grado di stupire o raggelare. Quello dell’artista, infatti, è forse un mondo glaciale in eruzione.

Protagonista dell’ultima serie di lavori, New York è vista al di là dell’iconografia ovvia e scontata. Anzi, a voler essere precisi e paradossali, è ritratta nel pieno dell’iconografia ovvia e scontata. Nonostante Harlem e Chelsea, il Bronx e i grattacieli, i McDonald’s e gli Starbucks, il Moma e il Radio City Music Hall, ciò che colpisce della Grande Mela è difatti lo spirito intraprendente, lo scatto, l’elettricità che scorre nelle sue arterie – in pratica, l’impossibilità di stare ferma e farsi catturare in una frase, in un’immagine, in una musica – e la Giannobi rapisce appunto questa considerazione più che comune, questa frase fatta, questa concezione popolare e tramandata d’amico ad amico. Non scatta sulla Fifth Ave. O sulla Broadway, nel Central Park o a Brooklyn, ma in quegli angoli, in quei paraggi, dove la vita scorre per davvero, dove i comportamenti e le abitudini delle persone fanno di Manhattan e dintorni quello che sono: davanti ai locali, ai SuperMarket, alle sale-spettacolo in cui l’energia prende corpo e vibra nell’aria. La New York della Giannobi è una sorta di traduzione a tutto tondo, ma senza fumo (anche se intrisa di vapori), della città di Smoke narrata da Paul Auster e Wayne Wang, è una città raccontata senza fretta e senza scelte scontate, muta ma splendente, di periferia ma in cui scorre il sangue di tutto l’universo. Come il regista e lo scrittore americani, anche l’artista italiana si affida a volte al caso e cerca l’esemplare dentro l’insignificante, conta su una struttura aperta e in costante evoluzione dove niente è consequenziale e dove nei luoghi dimenticati può infine trovarsi il nerbo portante della vicenda. ogni storia, ogni anfratto, ogni architettura, ogni personaggio può finire dentro, per sbaglio o per scelta, a uno scatto della fotografa, può svelare il succedersi delle cose senza svelare niente di sé. Vibrando e consumandosi per l’energia del mondo, di tutto il mondo, concentratasi per un attimo proprio lì.