CIO' CHE VEDIAMO, CIO' CHE CI GUARDA

Nelle sue fotografie Marina Giannobi compie sempre un viaggio nel mondo isolandosi in un contesto sociale o culturale oppure in una situazione autonoma del tempo, per focalizzare una visione funzionale alla percezione di immagini. In questo senso Giannobi esclude dalla rappresentazione ogni tensione drammatica privilegiando invece nell’azione dell’uomo la sua dimensione spirituale o nelle forme architettoniche il loro significato di presenze. La sua pratica artistica parte da uno sguardo attento e poetico della realtà sviscerato attraverso l’indagine di ossessioni che cattura con meticolosa curiosità e talentuoso taglio fotografico.

Se soltanto negli anni venti del Novecento arte e fotografia si sono avvicinate, ora la pratica contemporanea s’innesta nel filone delle Avanguardie per le quali il problema era quello della congiunzione tecnica, della mescolanza tra generi, della creazione dei primi collage e installazioni. L’arte non è una doppia vita ma un accatastarsi di livelli, un sovrapporre se stessi, un accavallare l’uguaglianza all’ineguaglianza. I lavori di Giannobi sono alterazioni ed interazioni dallo sviluppo autonomo che prevedono uno scarto in avanti determinato dal loro assemblaggio e da un codice poetico rilevante, sottile, sensibile.

La scala narrativa rivede il concetto di ciò che è represso e nascosto avvalendosi di un “modo” di scattare le fotografie che denota un segno intellettuale fortemente pensato, affascinante e paziente che ci conduce lungo una traccia di relazioni per farci entrare nella sua stanza poetica, nel suo straordinario diario. La componente fondamentale del suo lavoro risiede nel concetto di “altro” come critica al concetto di identità. <E’ innegabile che la più profonda associazione dell’uomo con i suoi simili è la dissociazione.> (1.)

La combinazione fondamentale è data da luce, spazio, sfumature, una mutazione trasparente e impercettibile e irreversibile e incessante, fino al ritorno al punto zero, il grado di partenza del sogno, luogo simbolico dove la realtà e l’immaginazione fanno nascere e vivere presenze e assenze. Zero è il punto focale dell’opera, campo intermedio dove l’intuizione universale è attratta e respinta, contrastata ed equilibrata. Gli elementi catturati dalla sua macchina fotografica sfuggono mediante l’epifania dell’opera ad un destino solitario per entrare in una dimensione introspettiva ma corale nella quale il cortocircuito è innestato da connessioni e rimandi, perdita e ritrovamento del senso originario, interscambio di rapporti e sentimenti.

Ciò che vediamo, ciò che ci guarda è una mostra che prende il titolo dal famoso scritto del grande filosofo dell’arte Georges Didi-Huberman (2) L’esplorazione della fotografa milanese di luoghi pubblici quali metropolitane, stazioni, pensiline ferroviarie e biblioteche dislocate in differenti parti del mondo si concentra, in questo nuovo corpo di lavori, sul tema della lettura e del libro come significante, protagonista attivo e passivo di una schedatura antropologica delle cose. Nella serie in bianco e nero il libro di lettori spiati e catturati dall’obiettivo di Giannobi è oggetto che si dissolve producendo un effetto pittorico diretto verso l’astrazione e la rarefazione dell’immagine. Quel libro, quello spartito, quello scritto cartaceo nelle mani di una persona che sta compiendo un breve percorso su di un mezzo pubblico si fa nell’immagine ombra sensibile di hegeliana memoria, in altre parole quasi un’opera d’arte in sé in quanto oggetto che va oltre il visibile, che offre la possibilità di avvertire ciò che c’è di là dal pellicolare, della pura percezione retinica offrendoci sensazioni ed emozioni invisibili, ma quanto mai reali.

Nel ciclo delle “librerie”, schermate a colori che possono sembrare texture, composizioni architettoniche, muri di colori, il libro si fa soggetto collettivo mediante l’accumulo di volumi che compongono un gioco rigoroso rafforzato da slittamenti, evanescenze e decise cromie.  È come passare dal silenzio al rumore, dalla stanza alla piazza, dal monologo al dialogo. Il brusio di fondo resta però costante, calibrato e ritmato dalla fotografa che senza paura e senza enfatizzazione annulla le contraddizioni per farci entrare in un rapporto elementare e risolto con l’immagine fotografata.

Posizioni di equilibrio e stabilità sono l’altalena esistenziale di Giannobi, artista dall’accento forte come assunzione di linguaggio artistico connaturato con una personalità da “traditore” nel senso che nelle sue opere esiste una coazione al Tradimento nella sua accezione più antica, e quindi positiva. Tradire è verbo composto dai due morfemi trans e do (=dare). Il prefisso trans indica un passaggio, l’atto di consegnare, affidare, insegnare ovvero il tramandare, raccontare. Ed è in questo senso che vive di slittamenti l’opera di Giannobi, linee prospettiche con vesti temporali, simboliche, fisiche, surreali. Vesti soggettive e intrise della loro propria personale congettura esistenziale. Vesti di allontanamenti metafisici, che dal reale risucchiano gli spazi e rifiutano le partiture, le note obbligate e i percorsi già noti. Il lavoro prodotto è caratterizzato da una fragilità solo apparente perché ogni traccia fotografica in verità si libera della presenza dell’artista che l’ha generata per conoscere e riconoscersi in una sua indipendenza sicura e spontanea, in un approfondimento che sembra sconfinare nella pittura, quella pittura nella quale i pigmenti si rompono e il colore si fa altro. Così le foto di Giannobi subiscono un processo paziente, mai artefatto da ritocchi digitali, ma ottenuto attraverso atmosfere, tempi di esposizione accelerati o rallentati, sensazioni di meraviglia accostate con fare sapiente e assolutamente consapevole. E questo è ciò che mi colpisce di questa fotografa, la consapevolezza appunto, la padronanza del mezzo, il palinsesto tutto delle opere nel loro insieme e una partecipazione che promuove effetti collaterali e conflitti dolci.

È incisiva la posizione artistica di Giannobi avvalendosi di un codice poetico che confina con il lirismo che è proprio dei passaggi minimi, delle posizioni calibrate, dei gesti misurati. Le sue fotografie “durano a lungo” non lasciandosi dimenticare dalla distrazione, ma sedimentando incessanti come solo le immagini bloccate della realtà sanno fare. Il suo ossessivo fotografare i libri è un contributo artistico a un’archeologia della modernità provvista del gesto antico della lettura espletato in una pausa forzata, nello spazio limitato di un viaggio coatto come quello normalmente compiuto dai pendolari urbani. Ed è proprio in questo sguardo fugace che sta l’estrema contemporaneità della fotografa milanese con le sue istantanee silenziose che svelano squarci di mondi come efficaci testimonianze di un processo collettivo in cui il singolo individuo si ripiega per un’avventura curiosa tra pagine, righe, parole, lettere che possano aprirgli altri mondi e altre coscienze. L’azione del leggere, cosa quasi rara in una società veloce e tecnologica satura di ipod e cellulari, è reso evanescente dai bianchi e neri tra i quali il soggetto compare appena diradandosi in una smaterializzazione leggera e ricercata, in una forma di saggezza che esplora i sentimenti divenendone confessione intima, inaspettata, pudica e gelosa della sua timidezza. Narratrice simbolica d’istanti, memorie, fantasie, angoli intimi, sguardi fuggevoli Giannobi compie sempre un volo delicato sulle vite degli altri innestando il passaggio necessario dall’individuale all’universale che appartiene agli artisti creatori, in altre parole coloro che plasmano mondi per restituirli rivisitati e rimossi dalla semplice privata apparizione.

All'interno di ogni immagine esiste una "tensione", “un’entropia". La tensione di quest’ artista è di raccontare delle storie indissolubilmente legate alla storia comune con soggetti sempre simili, ma mai uguali, che sembrano srotolarsi da un lavoro ad un altro provocando un senso di straniamento, di visione strabica e laterale che rifiuta la tutela della stabilità, la legittimazione di un file rouge precostituito e la necessità di un destino predeterminato.

Nel loro apparire i libri di Giannobi hanno una dimensione fisica che si fa meditativa vivendo una forma d’abbandono nel prendere atto di una coscienza profondamente modificata nell’approccio di chi li guarda. Si tratta di una riflessività sconnessa, di uno scambio di ruoli tra oggetto del guardare e soggetto che guarda, tra pagine che perdono la loro forma e le loro tracce sotto l’occhio chirurgico ma personale del mezzo fotografico, tra versi accennati e segni alfabetici che sembrano farsi ronzio sovrastante di un’analisi precisa dominante, quella del ciò che vediamo, ciò che ci guarda.

 

1.    Robert Musil, L’uomo senza qualità

2.    Georges Didi-Huberman, “Ce que nous voyons, ce que qui nous regarde”, Minuit, Parigi, 1992.