né in paradiso né all’inferno”
(Edvard Munch, Scritti autobiografici)
Queste parole dell’artista norvegese nascondono l’antico dilemma che separa ormai da quasi due secoli le discipline della fotografia e della pittura. Alla sua nascita, la fotografia ha senza dubbio rappresentato una grande crisi per la pittura mimetica, rappresentativa e referenziale, favorendo il più radicale cambiamento della storia delle tecniche pittoriche e costringendo gli artisti a risolvere nuovi linguaggi. Si sono aperte così le porte alle Avanguardie storiche e a tutta quella straordinaria produzione sperimentale, laica e agnostica del XX secolo.
Ma quello a cui si riferisce Munch è ben altro: egli, come la stragrande maggioranza dei maestri-pittori a cavallo tra Ottocento e Novecento, accusava la fotografia di interporre come una patina tra l’oggetto rappresentato e chi lo stava guardando, un velo che allontanava l’immagine dai sentimenti. Dunque, incapace di suggerire quel pathos appartenente alla pennellata e di non contenere quel sentimento passionale che conduce metaforicamente al paradiso oppure all’inferno, la fotografia è stata per decenni accusata di non possedere anche l’anima di chi l’aveva creata, scattandola, restando così solo ancella della pittura.
Perché, ci si chiedeva allora, la realtà doveva trionfare a scapito delle emozioni? Cosa ne sarebbe stato del sensuale cromatismo francese di Matisse? E della vertiginosa stesura di colore materico e pastoso di Van Gogh? Cosa avrebbe urlato l’allucinato e drammatico personaggio della tela di Munch? Cosa sarebbe accaduto all’audace rivoluzione prospettica promulgata da Cézanne?
La pittura soggiace a leggi irrazionali, analogiche, e appartiene a quella categoria di eventi sostanziali il cui simbolo è trasmesso dalla materia opportunamente disposta in una rappresentazione percepibile ai sensi. La pittura è pathos, è tensione emotiva, è fatica, è personalissima armonia delle forme e dei colori, è lotta continua tra la realtà nel quadro e il quadro nella realtà.
Il mezzo fotografico è sottoposto a codici, in parte, diversi: la disciplina fotografica è governata da mutevoli atteggiamenti verso i processi di invenzione, di ripetizione e di scarto. Ovvero, senza l’invenzione sarebbe soltanto una grigia quotidianità; per contro, se non fosse duplicabile e soggetta a scarti troppe immagini sopravviverebbero alla durata utile.
Immobile e riproducibile all’infinito la fotografia ha segnato l’epoca moderna delle repliche, una fase che, pervasa dalla passione del cambiamento fine a se stesso, ha saputo riconoscere come l’esistenza di un simbolo è forse basata proprio sulla ripetizione.
In virtù di quanto appena premesso, formalmente, considero l’opera di Marina Giannobi un punto d’incontro tra fotografia e pittura, in quanto trae origine dalla percezione umana e ad essa si riconduce. Le sue invenzioni estetiche allargano direttamente la coscienza umana non tanto per mezzo di nuove interpretazioni oggettive, quanto aprendo nuove vie al modo di esperire l’universo. I suoi lavori rappresentano sempre più un raffinato e intuitivo dialogo tra le movenze pittoriche e quelle fotografiche, tra la penetrazione emotiva dell’una e la percezione razionale dell’altra.
Quella della Giannobi è dunque una fotografia di qualità estremamente pittorica. Da dove vengono infatti quel prorompente tonalismo, quelle campiture cromatiche che ricordano le tele di Matisse e quella scansione prospettica che confonde i piani di visione, se non dalle formule pittoriche?
Dalle sue opere, inoltre, emerge prepotente anche la personalità di chi sta scattando, si evince con chiarezza la sua individualità, la sua cifra stilistica, che è forte e riconoscibile, che non si nasconde dietro un obbiettivo, ma che si abbandona al possesso della collettività, si concede proprio come sanno farlo i grandi pittori.
Closer, dunque, quando la fotografia si riavvicina alla pittura.
Dalla pittura l’artista ha appreso che le immagini, come le ombre, hanno forse più bisogno della luce e del colore che del loro corpo e che la verità di un’immagine nasce dalla sua suggestione, ovvero dalla sua estensione possibile, lo spazio dove si allunga la sua ombra.
Ma Marina Giannobi sa cogliere il significato profondo, l’illusione delle forze riproduttive che sembrano risiedere nelle cose, restando, comunque, una fotografa pura, che non scende a compressi con gli interventi digitali. La sue opere infatti non godono dei benefici di aggiustamenti al computer e tutti quegli effetti di allontanamento, di avvicinamento e di straniamento percettivo che si desumono dalle sue immagini non sono ottenuti per intercessioni digitali, ma solo attraverso un sapiente utilizzo della macchina fotografica.
Il suo apparecchio le permette di essere di fronte e, allo stesso tempo, dentro le cose e non separata da esse. L’io interiore della fotografa viene proiettato, così, all’interno dell’opera.
In questo slittamento temporale e spaziale forse risiede tutto il movimento che entra nei suoi scatti, che porta a una visione imperfetta, irrazionale, e permette, contemporaneamente, una armoniosa corrispondenza di rappresentazione e astrazione.
Considerando ciò, l’opera della Giannobi in parte affonda le radici nella più definita tradizione italiana: mi riferisco alle sperimentazioni futuriste di Anton Giulio Bragaglia, compiute con la cosiddetta tecnica ‘fotodinamica’, travolgente soluzione che rappresentava in fotografia delle persone in movimento. Mentre per l’artista futurista tale ricerca costituiva un’analisi di tipo scientifico, le figure umane in movimento della Giannobi sono un naturale medium estetico: queste infatti appaiono perfettamente confuse con le strutture architettoniche
e scorrono fluide, senza toccarsi, senza distinguersi nei loro caratteri fisionomici individuali. Sono incontri ravvicinati, sfiorati, mentali, rappresentati dall’artista come scosse di energia, generate delle forze cinetiche racchiuse nelle masse in equilibrio.
Un luogo preciso, a quell’ora; una persona, in quell’esatto momento; quell’attimo genetico, emozionale e irripetibile; quel moto perpetuo dei sentimenti che coinvolge un individuo con un altro. Per lo più paesaggi mentali, interni indefiniti, spazi sempre conclusi, in cui le figure umane sono materia informe, sono ombra, punti scuri che non desiderano un chiarimento, ma che catalizzano tutta la forza strutturale dell’ambiente che le circonda. Sono presenze silenziose, che danno profondità all’immagine; in loro assenza questa risulterebbe piatta e incerta.
Tale è la ricerca concettuale di Marina Giannobi, che riesce a seguire e a re-intrecciare, come una Penelope dei nostri giorni, quella trama di fili invisibili che avvicinano gli uomini, gli uni agli altri, e che li ricongiungono allo spazio in cui vivono. Il suo lavoro è una comunione di anima e percezione fisica.